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Caso Majolino: assolto dopo due anni il bidello di Palermo accusato di violenza sessuale

Decisivi per scagionare l'imputato le conversazioni su Whatsapp con i genitori e i metadati di tracciamento delle app che aveva sul telefono. Anche il possesso di video pedopornografici è stato dimostrato come involontario. Per la difesa, l'assoluzione si poteva decretare molto prima e non è stato cercato il vero colpevole del reato denunciato da due ragazze

Ilfattoquotidiano.it - 29 luglio 2021 - di Saul Caia

Assolto per non avere commesso il fatto. Quando il presidente del collegio giudicante del tribunale di Palermo ha letto la sentenza, Ignazio Majolino ha tirato un respiro di sollievo. Per quasi due anni e mezzo è stato agli arresti domiciliari, passando per essere un pedofilo e violentatore. Sotto accusa per una duplice violenza sessuale su due minorenni e il possesso di materiale pedopornografico. Un incubo che non sembrava avere fine, ma che grazie all’istruttoria difensiva dell’avvocato Gioacchino Genchi è riuscito ad uscirne indenne. In una vicenda che, leggendo gli atti difensivi, mostra alcune falle di un’inchiesta che forse si sarebbe potuta risolvere in netto anticipo.
 
L’uomo con l’indumento rosso. È giovedì, l’11 aprile 2019, quando il bidello 50enne Majolino, alle 8:50 del mattino, viene fermato da una volante dei carabinieri di Palermo. Ha da poco parcheggiato sotto casa dei suoi genitori, dopo essere stato a prelevare al bancomat e acquistare delle lamette da barba in un supermercato. Ancora non sa che due giovani ragazze, mentre si recavano a scuola, sarebbero state aggredite nelle vicinanze. La prima ragazza alle 7:30 e la seconda alle 7:40. Entrambe raccontano dell’aggressione di un “uomo alto e robusto”, che indossa “un giubbotto rosso”. Le avrebbe afferrate al collo, fatte cadere a terra e poi palpeggiato il sedere e il seno. “Stai zitta! Non ti preoccupare!”, le avrebbe detto il molestatore. Majolino ha una felpa rossa, e trovandosi nella zona, per i carabinieri è il primo sospettato.
 
Gli fanno alcune domande, chiedendogli il motivo del perché si trovasse proprio lì. L’uomo spiega che sta andando dai genitori, a recuperare un vecchio televisore. Questo sarà uno degli elementi che secondo l’accusa risulta “incongruente”, perché Majolino racconterà durante l’interrogatorio di aver deciso la mattina stessa di passare dai genitori, mentre la moglie spiegherà che il marito “quella mattina doveva recarsi dai suoceri a prendere la tv non funzionante”.
 
Le due giovani vittime, “rispondendo separatamente” e visionando alcune foto mostrate dai carabinieri in fase di indagine, riconoscono in Majolino l’aggressore. Ulteriore elemento per gli inquirenti è il ritrovamento, in uno degli hard disk in possesso dell’uomo, di 8 video dai contenuti pedopornografici.
 
I dubbi dell’inchiesta. Quando l’avvocato Genchi inizia a svolgere le sue indagini difensive, emergono alcuni passaggi a vuoto nell’inchiesta della Procura. Innanzitutto, fa presente che Majolino aveva la ricevuta del bancomat (8:27) e dello scontrino fiscale (8:49) dell’acquisto dei rasoi, ma per la pm Claudia Ferrari, e in seguito per il tribunale del riesame, i due elementi sono collocati in momenti successivi all’aggressione e inoltre sono due documenti “anonimi”. A quel punto, l’avvocato aggiunge che risultano anche i messaggi Whatsapp tra Majolino e la madre, la mattina dell’aggressione: ore 7:29, 7:40, 7:53, 7:54 e 8:15. I messaggi non sono inseriti nella perizia fatta dal consulente della Procura, e a dibattimento la pm spiega che quegli sms avvalorano la tesi accusatoria, perché c’è un vuoto temporale di 23 minuti tra la domanda della madre e la risposta del figlio.
 
Il difensore Genchi, quasi come se fosse l’hacker informatico Edward Snowden, raccoglie tutte le informazioni dei metadati del cellulare del suo cliente, gli accessi wifi fatti in casa, il tracciamento di movimenti con il gps, controlla persino le app aperte da Majolino in quella mattina, in cui risultano le consultazioni del meteo e all’applicazione della banca. Per Genchi, quei dati mostrano che l’uomo si sarebbe trovato a casa in tutta la fase in cui le ragazze denunciano l’aggressione.
 
Ma c’è un altro elemento, che sembra sfuggito alla narrazione degli inquirenti, Majolino, pur abitando con moglie e figlio in un’altra zona, ha la residenza (risulta anche dal suo documento d’identità) nella casa dei genitori ed è in possesso delle chiavi. Questo perché l’accusa non riteneva veritiero che l’uomo si trovasse sotto casa dei genitori per la televisione.
 
Niente telecamere. Nella lunga arringa difensiva, Genchi si sofferma sulla mancata acquisizione delle immagini video dell’area dell’aggressione, della scuola, della casa di Majolino e dei suoi genitori. Secondo il difensore, le immagini avrebbero potuto mostrare che il suo assistito non era l’aggressore. “L’imputato sin dal momento in cui è stato fermato ha detto qual è stato il suo percorso, e siccome è un percorso che faceva tutti i giorni, ha indicato subito le telecamere dove andare a prendere i filmati, perché se le vedeva tutte le sante volte che entrava e usciva di casa”, dice Genchi in aula.
 
“La vera vittima di queste omissioni non è il Majolino che ha scontato gli arresti domiciliari fino a oggi. Le vere vittime di questa vicenda sono quelle due povere ragazze, perché qualora il risultato di questo processo non sia solo una loro simulazione, un momento di gioco, ma sia il risultato dell’effettività di una aggressione che hanno subito, queste ragazze purtroppo non potranno mai avere giustizia, perché gli accertamenti sulla loro denuncia, su quello che hanno denunciato alla bidella e poi al preside e poi ai carabinieri, non sono stati svolti bene”, commenta Genchi davanti ai giudici.
 
La sua frase è stata profetica. Majolino è stato scagionato dalle accuse di violenza e anche dal possesso dei file pedopornografici. Quegli 8 video sessuali con minori, di cui Majolino ha sempre disconosciuto la paternità, trovati all’interno di una cartella del suo hard disk, che conteneva altri 539 file, sarebbero il frutto “dell’inconsapevole copiatura” dal disco rigido di un amico, avvenuto nel 2012, insieme a un centinaio di film cinematografici.
 
L’avvocato si chiede anche perché il perito della Procura non “ha depositato, dopo averla eseguita, la copia forense del cellulare dell’imputato” e non sono state acquisiti “i dati del tracciamento delle localizzazioni gps dell’antifurto con localizzatore satellitare dell’autovettura”.
 
Tutti elementi che, sommati ai precedenti, avrebbero forse permesso di scagionare prima Majolino, e chissà, magari trovare il vero responsabile che forse ancora oggi continua a essere libero e indisturbato.